Gli eredi del Gattopardo non sono chi avremmo pensato che fossero

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zambraDi Elena Atalmi

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Una donna forte, spigliata. Non ditele mai ‘donna con le palle’ che non le piace. Vive nel dubbio, ma non ricerca soluzioni facili con la pretesa che funzionino. Veleggia ben oltre i chiari orizzonti del luogo comune. Non ama neanche i termini astrusi. “Gattopardismo, bah”. L’importante è sollecitare una sana maieutica nel pubblico spettatore. La regista Annarita Zambrano ci regala un cinema d’autore, critico ma rispettoso. Ascolta, principiando ad entrare nella vita e nei pensieri degli intervistati in punta di piedi. La telecamera riprende. La gente si svela e si tradisce. Ognuno è come è o come appare, non importa. L’occhio del regista è in grado di rivelarcene l’essenza. E’ una magia silenziosa quella della conoscenza di qualcuno per mezzo di uno schermo, i suoi gesti ed i pensieri allineati sul filo d’un racconto architettato e funzionale.

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I protagonisti del documentario, “L’Anima del Gattopardo”, sono gente diversa, per cultura, lavoro, mentalità. “Dobbiamo parlare ancora di lotta di classe? E’ passato, le classi sociali non esistono più. Gli eredi del Gattopardo non sono chi avremmo pensato che fossero” commenta la regista. Un documentario che di quei personaggi e di quel mondo segue le tracce, ricerca gli eredi, ma senza puntarli col dito. Ci mostra una carrellata fra cui scegliere, ognuno il suo.

Emblematica dell’animo italiano, oltre che siciliano, la celebre frase di Tomasi di Lampedusa: “Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”. Attraverso immagini e racconti dei dietro le quinte de “Il Gattopardo” di Visconti anche il cinema viene chiamato in causa. “Non è un film sul corpetto della Cardinale” puntualizza la Zambrano. Piuttosto è un film che si guarda intorno, che racconta il presente, sottolineandone il legame col passato.

La Zambrano è andata a intervistare la baronessa di Frigintini, Agatina per gli amici, che vive in un antico palazzo dal duplice animo: ben tenuto e curato in una parte, dove la nobildonna soggiorna, in totale sfacelo nell’altra, donata al comune, che ne ha fatta tomba silente di piccioni stecchiti. Sentiamo anche i commenti aspri d’un vecchio che fa il contadino da una vita, per cui la terra è “sudore e sangue”. Il giovane agricoltore è più positivo, spera nella crescita dell’azienda, così come l’aitante imprenditore, figlio di borghesi arricchiti che ora punta la scalata al successo.

Il decadimento dell’aristocrazia e il rovesciamento delle parti che comincia proprio ai tempi del Gattopardo assume un ruolo importante nella storia personale di ognuno degli intervistati. L’aristocrazia decade in una borghesia decadente, dicono alcuni. Poco importa. L’aspetto interessante è come questo abbia influito sulla psicologia del siciliano.

Chi è per lei il siciliano?” “E’ un carattere complesso, un mistero. Non lo so chi è”. Eh già, lei è romana. Solo un siciliano può capire un siciliano, e non sempre ci riesce. Oltre a quelle greche esistono anche tragedie siciliane. Il documentario ci racconta una mentalità che si caratterizza per la concezione negativa della collettività, sempre degna di sospetto. Il siciliano vive il proprio interesse in funzione del clan, tutti gli altri sono nemici. Poi la continua ricerca di un alibi. Così prende forma l’irrimediabile pessimismo siciliano. Altro che Recanati, Leopardi sta di casa qua! “Il siciliano non ha fiducia nel cambiamento” si afferma. E’ una predisposizione mentale che lo imprigiona nel solito schema: qualunque proposta è bocciata, screditata, con cinica disillusione. Che fare allora? “Bisogna agire pur sapendo che è una mentalità irrimediabile ma fingendo che non lo sia” ci consiglia uno dei protagonisti. Quando e se riusciranno mai nell’impresa i siciliani scompariranno, perché i siciliani in fondo sono questo, quelli che non vogliono cambiare.

Questo documentario scalda gli animi: l’odio secolare Nord-Sud, le lotte di classe, i poveri schiacciati e derubati dai potenti, vengono rianimati e danno vita a una serie infinita di lamentele. Sembra una riunione di partito. Quasi si mette in dubbio il valore dell’Unità d’Italia! La Zambrano interviene d’anticipo, come un portiere in scivolata: “Nessuno penso abbia da ridire su questo!”. Una signora la guarda male, però i più ragionevoli fanno di sì con la testa e si prosegue. Per un po’, perché ecco rinnovarsi i dibattiti: la borsetta di coccodrillo della signora Agatina pare aver suscitato un enorme scandalo, e biasimare diventa sport nazionale.

Ripenso alle ultime scene del documentario.

I nobili che parlano della nobiltà d’animo contadina mi fanno ridere. Gli imprenditori veneti si rivelano presuntuosi quanto quelli siciliani. Il cuoco che lavora, la combriccola a tavola che chiacchiera e sghignazza, bicchieri scintillanti e luci curate ad hoc: sembra di essere sul set di Visconti. “Qua dentro vigono le classiche regole e vanno rispettate” ci informa il cuoco. Quali siano queste regole lo intuiamo. La scena finale è graziosissima. Risate in sottofondo al prete che battezza e beve il sangue di Cristo con gesto spartano da vignaiuolo. C’è chi lavora e chi mangia, come allora, come sempre. Gli sguardi senza vergogna, le facce della gente. Tutto sa di vero, la realtà ha superato l’immaginazione, bucando lo schermo e catapultandosi in sala. Sento l’emozione, gusto l’amarezza. La Sicilia ha grandi ricchezze e grandi mancanze. Una terra in procinto di, come le avessero scattato una foto l’attimo prima di compiere il passo e lì è rimasta, prigioniera nel tempo d’un tempo immobile, con quel mezzo sorriso che non sai interpretare, il busto ruotato, il piede in aria. Una posizione pericolosa e articolata. Difficile mantenere l’equilibrio.

Un’altra domanda” “Prego” “Aspetti..” Sfoglio il block-notes. “Aspetti..”. Lo sfoglio ancora. “Non ricordo”. Va bene così. Si sorride e ci si saluta. Annarita ha parlato, ora tocca a me combattere col tarlo che ho in testa.

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